Quanto in corso nell’est europeo mette sotto i riflettori diverse questioni, tra le quali il rapporto tra guerra ed energia, dove i media non sempre colgono le complessità di questa relazione. La vicenda russo-ucraina fa emergere due nodi fondamentali, uno geopolitico e l’altro economico, nei quali l’energia gioca un ruolo decisivo. Per quanto riguarda l’aspetto geopolitico i mezzi d’informazione tendono a sottolineare solo la dipendenza della UE dalle fonti energetiche russe, gas in particolare. Il dibattito è quindi rivolto alla ricerca di altri fornitori internazionali (la recente visita di Di Maio unitamente all’ad di ENI De Scalzi in Qatar ne è un esempio) o altre fonti energetiche, dal carbone al nucleare alle rinnovabili. Vi è un aspetto invece trascurato, ma decisivo.
Il conflitto ripropone all’Europa un tema centrale, quello di trovare nello scacchiere internazionale un proprio autonomo spazio di là delle tradizionali alleanze politiche e militari atlantiche. L’Europa, ancora una volta, non ha una posizione unitaria, si presenta in ordine sparso nella gestione diplomatica e militare del conflitto. Solo alcuni leader, Macron e Scholz, hanno un filo diretto con Putin, mentre i referenti politici degli altri paesi rimangono in secondo piano o sono del tutto assenti. Anche gli aiuti, compresi quelli bellici, all’Ucraina sono frutto di iniziative di singoli paesi. Emerge in modo chiaro e netto la mancanza di una visione condivisa europea.
Se la UE non è compatta nell’affrontare la crisi non è solo la risultanza di una incompiuta unità politica ma è legata a doppio filo alla questione energetica. La dipendenza dalle fonti fossili russe (solo per il gas la UE importa il 45% del suo fabbisogno dalla Russia, 25% la quota del petrolio), non è equamente divisa fra i 27 stati membri. Italia e soprattutto Germania ne dipendono in modo decisivo: l’Italia importa dalla Russia il 40% del gas, la Germania ne dipende per il 50%, mentre altri, ad esempio la Francia, non hanno significativi legami energetici con Mosca. Uno degli obiettivi strategici di Putin è quello di dividere l’Europa e l’arma energetica è quella più efficace.
La storia del Nord Stream 2 – il più importante progetto di collegamento energetico tra Russia e Germania (temporaneamente sospeso nello scorso mese dal cancelliere Scholz) – ci offre un significativo quadro di come gli interessi del capitalismo europeo, e in particolare tedesco, non abbiano una posizione unitaria nei confronti di Mosca. Il gasdotto, sebbene di proprietà della società russa Gazprom (uno dei leader mondiali del settore fossile,) è stato finanziato da cinque società europee (Uniper, Wintershall Dea, Shell, Omv ed Engie) e rappresenta, sotto il profilo geopolitico, un saldo legame con Putin. In Germania è da tempo attiva una lobby del gas capitanata dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder che al giugno 2020 sedeva nei board della compagine petrolifera russa Rosneft e di Nord Stream AG, società che aveva costruito la prima pipeline Nord Stream 1.
Se la storia delle due pipeline Nord Stream ci dicono molto sulle relazioni di dipendenza di una parte del capitalismo occidentale con il Cremlino, dall’altro lato una parte importante dell’occidente, non solo europeo ma “atlantico”, sta prendendo posizioni radicalmente avverse a Putin, in particolare Gran Bretagna e Norvegia. L’inglese BP (British Petroleum, una delle maggiori multinazionali del settore energetico) e il più importante fondo sovrano mondiale Norges (gestito dalla banca centrale norvegese) hanno dismesso la loro partecipazione azionaria in Rosfnet, la principale compagnia energetica russa, innestando un effetto domino. Equinor, il gigante dell’energia norvegese, ha dichiarato che non ha più intenzione di investire in Russia.
Non è un caso che le decisioni radicali di BP e Norges siano facilitate dalla minore dipendenza energetica da Mosca a differenza di alcuni paesi europei. Ancora una volta l’energia divide non solo la UE ma anche le alleanze atlantiche: le contraddizioni europee sono emerse in modo evidente anche nell’incontro di capi di governo della UE tenutosi a Versailles tra il 10 e l’11 marzo. La Francia ha proposto un debito comune europeo, in sintesi un Recovery Fund bellico-energetico; l’idea è stata divisiva, con l’Italia favorevole e contrari Germania e Olanda. Di fatto si ripropone, come per altre questioni – vedi il “ritorno” del nucleare, il progetto di un esercito europeo e l’ipotesi di una nuova “Agenzia del debito Europeo” – un asse franco-italiano in contrapposizione ai paesi nord UE. Anche l’idea di nuove sanzioni nei confronti di Mosca non ha trovato piena condivisione. In sintesi la questione energia-geopolitica ci consegna un occidente diviso e di fatto poco incisivo, pressoché inerte nel trovare soluzioni comuni.
Pure per l’aspetto economico del rapporto guerra-energia la narrazione dei media è alquanto approssimativa. L’informazione fa risalire alla vicenda bellica la causa dello straordinario aumento dei prezzi energetici e delle materie prime: ricordiamo che in un anno gli aumenti sono stati del +131% per la luce e del +94% per il gas naturale. La relazione guerra-energia-rialzo dei prezzi ci conduce a valutazioni che esulano direttamente dalle vicende belliche in corso ma coinvolgono altri aspetti: i conflitti non si svolgono solo sui campi di battaglia ma anche e soprattutto nelle sedi delle banche centrali e nelle principali istituzioni finanziarie. La moneta, i tassi di interesse, gli strumenti finanziari tra i quali i futures hanno la medesima valenza dei più sofisticati ed avanzati sistema d’arma – tra la guerra e l’energia emerge un altro attore, il vero protagonista: la finanza.
Occorre sfatare un luogo comune, divulgato dai media e dagli opinionisti al soldo del sistema. I prezzi dell’energia, ai quali bisogna associare quello delle materie prime e generi alimentari, non si sono impennati solo a causa delle recenti vicende belliche ma sono il frutto di speculazioni finanziarie. I prezzi internazionali delle materie prime sono esplosi sulla spinta dei titoli finanziari o meglio dei futures, strumenti che, per le loro caratteristiche tecniche, moltiplicano all’infinito i prezzi senza che vi sia un reale, concreto, aumento della domanda di beni o viceversa di scarsità dell’offerta. In altre parole il prezzo sfugge alla logica della domanda e dell’offerta, non riflette più lo scambio di beni fisici, segue invece le contrattazioni finanziare che a loro volta sono influenzate dai futures – vere e proprie “scommesse” sulla previsione dei prezzi di beni.
Se dall’inizio della pandemia vi è stata una certa difficoltà a rifornire di merci il mercato globale, per le ovvie e note problematicità nella produzione e trasporto di merci, non vi è oggi alcuna giustificazione per l’aumento esponenziale delle bollette del gas, dell’elettricità o del rifornimento di carburanti. Ad oggi non vi è stata alcuna sospensione delle forniture di oro nero o blu da parte della Russia verso l’Europa che possa giustificare un rialzo drammatico dei costi energetici che sta drenando le risorse, già scarse, nelle tasche dei produttori (in contemporanea si stanno alzando a dismisura i profitti delle imprese energetiche). Né tantomeno sono stati sospesi i pagamenti, via Swift, a Gazprom: in sintesi la Russia rifornisce l’Europa e questa fa affluire nelle tasche di Putin un miliardo di euro al giorno. Gli effetti del conflitto, nonché delle “dure” sanzioni occidentali non colpiscono, al momento, il flusso vitale per i due contendenti principali, Occidente e Russia: l’energia fluisce da est a ovest e da qui si provvede con puntualità quotidiana a saldare il conto, contribuendo, oltretutto, in modo deciso a finanziare i costi della guerra.
È quindi del tutto evidente che l’esplosione dei prezzi non dipende dal mercato “fisico” ma è figlia della speculazione, innanzitutto dei titoli energetici. L’esempio più chiaro lo si ha nella quotazione del brent WTI (petrolio estratto in Texas): il WTI sul mercato viene quotato tramite lo strumento dei contratti futures e interessa e influenza ben due mercati finanziari: New York Mercantile Exchange (NYMEX) ed International Exchange. Osservando l’andamento della quotazione WTI nel periodo 8 marzo-10 marzo vediamo che nel giro di soli tre giorni di mercato si è passati da un valore di 130 dollari al barile a 90 dollari.
In ogni caso il processo di finanziarizzazione dell’economia non è un fenomeno attuale ma ha preso piede dai primi anni del 2000 e sono cinque i passaggi fondamentali che hanno permesso la transizione dal capitalismo produttivo a quello speculativo finanziario. L’amministrazione Clinton, nel 1999, aboliva il Glass-Steall Act, (provvedimento del 1931 che separava le banche commerciali da quelle di investimento) e, soprattutto, si è introdotta nel mercato del credito la cartolarizzazione – insomma la possibilità di trasferire i crediti, quindi il loro rischio, in una miriade di titoli da vendersi a pioggia sul mercato. In poche parole si ribaltava il rischio dell’insolvenza del credito in capo alle banche e alle finanziarie su un esercito di piccoli investitori. Per ultimo i derivati, tra i quali i futures, hanno dismesso il loro compito originario di strumenti a copertura della fluttuazione dei cambi o dei prezzi per diventare degli autentici strumenti di “scommessa”, soprattutto per il mercato energetico e dei prodotti agricoli. I derivati hanno inoltre avuto un decisivo impulso da quello che è definita la “finanza ombra”, cioè la possibilità tecnica attraverso le piattaforme informatiche e l’utilizzo di algoritmi per un numero infinito di operatori di operare sul mercato finanziario in tempo reale. Si è in tal modo moltiplicato e velocizzato il numero delle transazioni finanziarie e quindi la possibilità di influenzare l’andamento dei prezzi. In poche parole il valore del prodotto fisico non dipende più solo dal reale scambio sul mercato (domanda e offerta) ma dalla previsione del suo valore.
Ultimo fattore decisivo per innescare la speculazione sui prodotti energetici è il mercato dei certificati dei crediti di carbonio. I produttori di energia elettrica, come stabilito dal protocollo di Kyoto, al fine di ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei settori energivori, devono approvvigionarsi, tramite aste, sul mercato delle quote necessarie per coprire il proprio fabbisogno di emissioni. Nel 2005 è stato istituito l’EU ETS il più grande mercato sistema internazionale per lo scambio di quote di emissione di carbonio. In sintesi le grandi aziende produttrici d’energia sono obbligate a comprare tali certificati per compensare l’emissione di CO2 che rilasciano nell’atmosfera: pagare per poter continuare a inquinare. Su tali mercati si è innestata la speculazione finanziaria tramite i futures influenzando in tal modo gli oneri delle società energetiche. Nell’arco di un anno dal marzo 2021 ad oggi la quotazione dei futures sui crediti in carbonio è più che raddoppiata contribuendo alla crescita dei costi energetici.
Le soluzioni proposte dai media per rompere il ciclo guerra-energia-aumento delle bollette sono solo risposte “tampone”: si va dal ritorno “temporaneo” del carbone, al ritorno invece stabile del nucleare, o incentivare lo sviluppo delle rinnovabili. Altra misura è la revisione del costo della bolletta, sgravandola da oneri quali il contributo per lo “smantellamento” delle centrali nucleari inattive.
Sgravare le bollette di tali oneri gioverebbe soprattutto a chi ha meno risorse: tali misure sono solo parziali e non affrontano il nocciolo del problema – la speculazione finanziaria. La soluzione sarebbe una sola: quella di ricondurre i derivati al loro scopo originario cioè quello della protezione della fluttuazione dei prezzi per operazioni reali. Va da sé che tale misura non verrà mai adottata da un sistema, quello capitalista, che in buona parte (soprattutto in occidente) ha “dismesso” gli investimenti e la produzione. Il profitto deriva da decenni dalla compressione dei salari e dalla ricerca del minor costo del lavoro (delocalizzazioni e proliferazione dei contratti a termine) nonché dalla speculazione finanziaria.
In conclusione la guerra nel suo rapporto con l’energia fa emergere le contraddizioni di un sistema che sta mostrando la corda e che non riesce più ad autoriformarsi. Costruire relazioni tra umani che non abbiano il profitto come fine è sempre meno utopico ma concreta alternativa.
Daniele Ratti